Milano in the Cage è un film crudo e viscerale che mescola il genere sportivo al dramma urbano con un’impronta realista e un impatto emotivo molto forte. Ambientato in una Milano notturna che nulla a che vedere con la Milano da bere degli anni 80, il film racconta la storia di Alberto “Al” Lato, un uomo di 36 anni con un passato segnato dalla violenza.

Ex pugile, ex buttafuori, ex guardia del corpo, ora sopravvive in un mondo degradato, tra prostituzione, droga e piccole criminalità. Separato e distante dal figlio, Al cerca una possibilità di redenzione personale e familiare. Questa possibilità sembra emergere attraverso la partecipazione alla finale di un torneo di MMA, intitolato proprio “Milano in the Cage”, combattimento che viene ripreso nel film in tempo reale e con esito non deciso a tavolino ma lasciato al verdetto effettivo sul ring.
La regia di Bastianello adotta un’estetica sporca, ruvida, a tratti quasi documentaristica. L’uso frequente della macchina a mano, le inquadrature notturne e la fotografia dai toni cupi con il colore virato al metallico creano un’atmosfera densa di disagio e realismo. L’intento non è quello di abbellire, ma di mettere lo spettatore di fronte alla nuda verità di certe esistenze marginali, schiacciate da una metropoli che non perdona. Solo si concede qualche reminescenza sull’allenamento alla Rocky, pur rimanendo fortemente ancorato a una dimensione italiana, metropolitana e molto concreta.
Uno degli aspetti più interessanti è l’uso di attori non professionisti. Molti di loro interpretano se stessi, contribuendo a un forte senso di autenticità, anche se questa scelta comporta inevitabilmente una certa disomogeneità nella recitazione. Alcuni momenti risultano convincenti e intensi, come le interpretazioni dello stesso Al e soprattutto della sua ex moglie interpretata da Antonella Salvucci. I suoi primi piani mettono in risalto una grande espressività, uniti a una forte presenza scenica che rende molto credibile il personaggio. Altre figure secondarie appaiono più forzate o poco espressive. Tuttavia, questa imperfezione rientra nella logica grezza e diretta del film e finisce per non risultare eccessivamente disturbante, ma coerente con l’ambiente raccontato.
La colonna sonora contribuisce a rafforzare l’identità underground del film. Tra rap e rock duro, le musiche accompagnano le scene con energia e rabbia, amplificando l’urgenza e la frustrazione del protagonista. La scelta musicale non appare mai casuale, ma funzionale a sottolineare le dinamiche interiori dei personaggi e la tensione sociale che li circonda.
La forza del film risiede nella sua sincerità. Nonostante i limiti di budget e qualche sbavatura tecnica, Milano in the Cage riesce a trasmettere un sentimento reale di lotta e sopravvivenza. La storia di Al è ispirata a fatti vissuti realmente e si percepisce l’urgenza espressiva di voler portare alla luce un mondo che raramente trova spazio nel cinema italiano. In questo senso, si può considerare un piccolo atto di coraggio: non solo per il tema trattato – le MMA, mai affrontate così direttamente in un’opera nostrana – ma anche per la scelta di ambientare tutto in un contesto urbano autentico, senza patinature, mostrando una Milano che somiglia a Gomorra.
Il finale è particolarmente significativo: non è costruito secondo le regole classiche della narrazione, ma è affidato alla realtà dell’incontro, al verdetto della gabbia, all’esito imprevedibile di un combattimento vero. Questa scelta rafforza il senso di incertezza esistenziale che attraversa tutto il film e coinvolge emotivamente lo spettatore, che viene trascinato nell’ansia e nella speranza del protagonista.
In conclusione, Milano in the Cage è un film imperfetto ma sincero, duro ma autentico che ha il coraggio di osare, di sporcare lo schermo con una verità che raramente si racconta, di raccontare chi normalmente resta ai margini. Ma per chi cerca un cinema italiano alternativo, capace di narrare la lotta quotidiana di chi vive sotto la superficie e rappresenta un esperimento interessante.